Dal welfare state al welfare generativo
Ripensare il welfare e progettare una nuova idea di società. Il prof. Pezzana dialoga su un modo nuovo di stare in relazione e di vivere la propria individualità all’interno della propria comunità
Durante il Festival della Dottrina Sociale, Fondazione Cattolica ha ospitato l’incontro “Dal welfare state al welfare generativo: dinamiche di legami sociali” in cui hanno partecipato: Adriano Tomba, Segretario Generale di Fondazione CattolicaVerona, Paolo Pezzana, sociologo e professore del centro di ricerca Arca dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Enza Famulare della Cooperativa Lindbergh di Ceparana, Chiara Ricciardelli della Cooperativa Sociale La Venentadi Bologna e Andrea Boccanera di Onlus Gulliver di Pesaro con l’obiettivo di rispondere alla domanda:
Come superare le tradizionali logiche di welfare creando un sistema che valorizzi le Persone?
L’impresa sociale attraverso l’efficacia e l’efficienza tipica del profit risponde ai bisogni sociali ma tiene saldo i suoi veri obiettivi che sono l’inclusione, la costruzione di relazioni e comunità, la formazione delle persone, la diffusione di responsabilità e quindi lo sviluppo integrale delle persone. E’ possibile fare impresa superando un modello economico estrattivo?
Il welfare state in Italia
Si tratta di un tema di grande attualità, il welfare statale anche in Italia sta cedendo, dopo aver fatto ricorso all’indebitamento e alla privatizzazione, ora è un apparato complesso, oneroso e di limitata efficacia: nel 2019 la spesa sociale è stata di 432 miliardi, cioè il 56% della spese corrente, al netto delle pensioni e della sanità solo 63 miliardi sono stati destinati a settori come l’invalidità, il sostegno alle famiglie, l’housing e esclusione sociale, tutti ambiti che sono in fortissima crescita. Si stima un gap di 150 miliardi tra bisogni sociali e spesa pubblica e nei prossimi anni la forbice si allargherà ancora: se non si troveranno nuove soluzioni il rischio sarà che questo vuoto verrà riempito da operatori privati, sostenuti da grandi investitori finanziari, mossi dall’unico obiettivo del guadagno. E naturalmente i poveri verranno esclusi da questo sistema.
È dunque necessario ripensare il welfare e progettare una nuova idea di società, un modo di stare in relazione e di vivere la propria individualità all’interno della propria comunità.
Nuovi modelli di welfare
Il prof Paolo Pezzana, nell’introdurre il tema del welfare generativo, propone una similitudine tra generatività e verità: entrambi sono fatte di persone e si declinano nella relazione, non consistono in teorizzazioni e principi, ma in relazioni autentiche e in altri aspetti di varia natura, emotivi, cognitivi, di fede, spirituali, che concorrono a definirli.
Negli ultimi anni il welfare generativo spesso non è stato compreso correttamente: si è diffusa l’idea che la generatività applicata al welfare sia un modo per ottimizzare le risorse a disposizione dei Comuni e del sistema dei servizi in generale, cui andrebbero poi aggiunte le risorse che i beneficiari di quegli interventi verrebbero chiamati a mettere in campo. Questa interpretazione però non è corretta, non si tratta di generatività ma di condizionalità, un’idea portata avanti anche da Margaret Thatcher, che fu primo ministro dell’Inghilterra in un periodo non propriamente felicissimo per lo sviluppo dell’idea di comunità nel Novecento. Sostanzialmente si applica al welfare quella formula del do ut des, di scambio, di sinallagma, che domina il meccanismo di scambio economico della società moderna e che in particolare nel Novecento e nei primi anni del Duemila si è spinto ad una velocità sempre più esponenziale con l’aiuto della tecnologia.
Il concetto di “welfare” lo ha inventato nell’Ottocento Otto von Bismarck, cancelliere di Prussia, nel tentativo di contrastare il pensiero comunista marxista che si stava allora diffondendo: lo statista comprese che le persone, in quell’epoca segnata dalla grande rivoluzione industriale, correvano dei rischi di varia natura e avevano necessità di trovare una risposta alle loro preoccupazioni. Il welfare nasce dunque come prevenzione dei rischi, mentre ora viene inteso invece come strumento per soddisfare dei bisogni.
Il welfare attuale infatti è un trinomio: rischi – bisogni – prestazioni. Esistono dei rischi, quando questi si manifestano possono determinare dei bisogni ai quali si dà risposta con delle prestazioni. Si tratta di un modello di welfare prestazionista, a domanda individuale, che ricerca continuamente la soddisfazione dei bisogni attraverso prestazioni appunto. Il welfare generativo invece, mobilita le proprie risorse non solo per rispondere ai bisogni, ma anche per prevenire i rischi, per fare in modo che i rischi che tutta la comunità corre non si manifestino in qualcosa che possa poi generare una cascata di bisogni infinita.
Il welfare generativo
Se queste due polarità sono reali è pressoché impossibile per un ente pubblico, un ente locale, fare tutto ciò che serve per essere efficace, è ontologicamente impossibile, non può essere onere solo dello Stato e guai se così fosse. Perché se l’obiettivo è prevenire dei rischi cosiddetti di sistema, quale ad esempio il rischio per la salute causato dai cambiamenti ambientali, è impensabile concepire uno Stato, un Comune, che da solo risponde a questa sfida, senza mobilitare invece le energie, la capacità dei cittadini di fare la propria parte.
Il welfare non può essere governato dal meccanismo dello scambio, per cui l’aiuto dato alle persone viene condizionato al fatto che in cambio di quanto ricevuto diano qualcosa, secondo modalità, qualità e contesti prestabiliti. Si devono invece attivare dei meccanismi di contribuzione e stimolare la cultura della contribuzione. Che cos’è la contribuzione? L’opposto dell’estrazione.
Il modello attuale di sviluppo, quello estrattivo, spinge alla ricerca del massimo profitto, economico ma non solo, da ogni situazione; questo sistema però si sta esaurendo, come stanno verificando e studiando Michael Porter della Business School di Harvard e i massimi teorici dell’organizzazione del capitalismo.
La contribuzione invece è uno stile nel quale mediante l’agire, il fare impresa, l’essere famiglia, l’essere comunità locale, mediante le relazioni, mediante lo stare insieme, ci si preoccupi che qualcosa del valore prodotto diventi subito disponibile gratuitamente anche per gli altri, fuori dalla logica dello scambio, e non necessariamente entrando nella logica del dono, e venga semplicemente messo a disposizione.
La contribuzione allora è attenzione per la bellezza, cura dell’ambiente, “fare bene le cose”, condividere ad esempio pezzi di codice se ci occupiamo di progettazione di software, lasciare aperte alcune nostre intuizioni, rendere percorribili i nostri spazi alla cittadinanza, valorizzare i saperi e le competenze dei soggetti che normalmente non vengono riconosciuti.
L’estrattività, continua il prof. Pezzana, che è stata un paradigma organizzativo degli ultimi anni anche nel mondo del welfare, è come una pentola di minestra: lo Stato la prepara con i vari ingredienti e la mette sul fuoco ovvero istituisce delle gare che chi offre di più si aggiudica, quindi una competizione determina chi si prende la minestra e se la mangia con i suoi. La contribuzione invece è come il pentolone del gallico Asterix e lo Stato è Panoramix, il druido che conosce la ricetta della pozione e coinvolge tutto il villaggio nella raccolta degli ingredienti. Questi vengono poi posti dentro al calderone, in mezzo alla comunità, per la comunità perchè solo nutrendosi insieme, sconfiggeranno l’Impero Romano.
Il welfare generativo è così, è fatto di dispositivi che mobilitano la contribuzione delle persone che sono in grado di abitare quell’eccedenza tra la vita e la forma che, come insegnava Georg Simmel nell’Ottocento, grande padre della sociologia e delle filosofia contemporanea, accompagna l’esistenza degli uomini.
Simmel diceva che tra la vita e la forma c’è una dialettica: l’uomo non può vivere senza forma, ha bisogno di organizzazioni ma nel momento in cui viene data una forma alla vita, la vita stessa è già corsa più avanti. Quella forma nel momento in cui viene istituita è già inadeguata a rispondere alle esigenze della vita che hanno portato a costruire quella forma. Dunque per il filosofo la sfida di ogni singola vita, che è esattamente la sfida della generatività e quindi anche del welfare generativo, è abitare dentro quella eccedenza costante tra vita e forma, cioè riuscire a cogliere quel di più che la vita sempre esprime, propone, senza la pretesa di dargli una forma definitiva perché non è possibile, ma mantenere la tensione costante ad accompagnare le persone e le loro organizzazioni a tendere, ad essere protesi verso la vita.
Il welfare generativo infatti è un fatto di persone, di capacità di abitare l’eccedenza che la vita ha sempre sulla forma, è un fatto di storie, di narrazioni, che regge alla prova del “vieni e vedi”, della verità, come la chiamava Richard Norman. Il welfare non può reggersi sul sistema del “do ut des”, che chiede al beneficiario qualcosa in cambio del servizio di cui gode ponendolo in una condizione di minorità e di debito, perché questa è servitù, un’esperienza antica in veste moderna, non a caso promossa nel contesto ultraneoliberista di Margaret Thatcher.
È possibile invece abitare gli spazi della libertà, in cui il contributo è libero, dettato dalla consapevolezza che l’aiuto, offerto anche dai beneficiari stessi di welfare, è prezioso, può essere costituito da saperi, competenze di cui è riconosciuto il valore e che per questo che è importante metterli a disposizione.
Il lavoro nel welfare generativo
Esiste poi un altro aspetto da considerare, prosegue Pezzana, ossia la fine del lavoro così come elaborato dal Novecento: secondo le previsioni, l’automazione dei processi produttivi porterà alla scomparsa del 70% delle professioni attuali entro il 2040. Ciononostante il lavoro continua ad essere uno dei principali elementi per il riconoscimento, la valorizzazione delle competenze e dei saperi delle persone. È necessario allora, come riconoscono studiosi del calibro di Bernard Sinclair e Alain Supiot, distinguere tra lavoro e impiego. L’impiego è ciò che fornisce una quota di risorse necessarie per vivere. Il lavoro invece, che Aristotele chiamava èrgon, la forza, è il motore di cambiamento ed azione nelle comunità. Attraverso il lavoro è possibile riconoscere i saperi e le competenze, che vengono valorizzate e messe a frutto da ragazzi diversamente abili, anziani, bambini, giovani, professionisti, educatori… da tutti.
Le esperienze portate dai relatori presenti a questo incontro, il loro modello economico e di organizzazione, che sa tenere insieme lavoro e impiego nell’ottica della sostenibilità, possono allora ambire ad essere paradigma di una soluzione inedita e innovativa e diventare riferimento per lo sviluppo di un vero e diffuso welfare generativo.